LETTERA FRATERNA n. 92 - Gennaio 2017

Il pastore che parla al cuore, che conosce cosa lo abita.

  

“In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola»...

Le mie pecore ascoltano la mia voce. Prima grande sorpresa: una voce attraversa le distanze, un io si rivolge a un tu, il cielo non è vuoto. Perché le pecore ascoltano? Perché il pastore non si impone, si propone; perché quella voce parla al cuore, e risponde alle domande più profonde di ogni vita. Io conosco le mie pecore.
Per questo la voce tocca ed è ascoltata: perché conosce cosa abita il cuore. La samaritana al pozzo aveva detto: venite, c'è uno che mi ha detto tutto di me. Bellissima definizione del Signore: Colui che dice il tutto dell'uomo, che risponde ai perché ultimi dell'esistenza.
Le mie pecore mi seguono. Seguono il pastore perché si fidano di lui, perché con lui è possibile vivere meglio, per tutti. Seguono lui, cioè vivono una vita come la sua, diventano in qualche modo pastori, e voce nei silenzi, e nelle vite degli altri datori di vita. Il Vangelo mostra le tre caratteristiche del pastore: Io do loro la vita eterna / non andranno mai perdute / nessuno le rapirà dalla mia mano!
Io do la vita eterna, adesso, non alla fine del tempo. È salute dell'anima ascoltare, respirare queste parole: Io do loro la vita eterna! Senza condizioni, prima di qualsiasi risposta, senza paletti e confini. La vita di Dio è data, seminata in me come un seme potente, seme di fuoco nella mia terra nera. Come linfa che risale senza stancarsi, giorno e notte, e si dirama per tutti i tralci, dentro tutte le gemme.
Le vicende di Galilea, la tragedia del Golgota, le parole di Cristo, che vengono come fiamma e come manna, non hanno altro scopo che questo: darci una vita piena di cose che meritano di non morire, di una qualità e consistenza capaci di attraversare l'eternità. Il Vangelo prosegue con un raddoppio straordinario: Nessuno le strapperà dalla mia mano. Poi, come se avessimo ancora dei dubbi: nessuno le può strappare dalla mano del Padre.
È il pastore della combattiva tenerezza. Io sono un amato non strappabile dalle mani di Dio, legame non lacerabile. Come passeri abbiamo il nido nelle sue mani, come bambini ci aggrappiamo forte a quella mano che non ci lascerà cadere, come innamorati cerchiamo quella mano che scalda la solitudine, come crocefissi ripetiamo: nelle tue mani affido la mia vita.
Il Vangelo è una storia di mani, un amore di mani. Mani di pastore forte contro i lupi, mani tenere impigliate nel folto della mia vita, mani che proteggono il mio lucignolo fumigante, mani sugli occhi del cieco, mani che sollevano la donna adultera a terra, mani sui piedi dei discepoli, mani inchiodate e poi ancora offerte: Tommaso, metti il dito nel foro del chiodo! Mani piagate offerte come una carezza perché io ci riposi e riprenda il fiato del coraggio.

Ermes Ronchi (tratto da www.avvenire.it)

Di seguito il commento di p. José María Castillo.

1. È un fatto che le religioni si organizzano, da più di 5000 anni, come “sistemi di ranghi, che implicano dipendenza, sottomissione e subordinazione a superiori invisibili” (H. Steible, M. J. Seux, C. G. Griffiths, W. Burkert). Come è logico, se i superiori religiosi per tanti secoli hanno assunto tali titoli e poteri, questo equivarrebbe a presentare Dio come Potere e Dominazione.
Ecco perché i rituali religiosi esprimono sempre, in una maniera o nell’altra, il fatto che “quando ci imbattiamo nel divino, ci adattiamo ad ogni tipo di rappresentazione di modestia” (Seneca). Con questo l’essere una “persona religiosa” è essere una “persona sottomessa” fin negli ambiti più intimi della sua vita. 2. Ma questo ha voluto Gesù? Il modello di relazione, qui presentato dal Vangelo, va per un’altra strada. Questa relazione si definisce con tre verbi: “ascoltare” (akoúo), “conoscere” (ghinóskô) e “seguire” (akoluthéô). Prima di tutto, i discepoli “ascoltano” il pastore, cioè Gesù. Ma sapendo che “ascoltare” equivale ad interessarsi a quello che dice. In secondo luogo, il pastore “conosce” le pecore. Questo indica una relazione di reciproca comprensione (R. Bultmann) ed accettazione. In terzo luogo, la “sequela”, che definisce la maniera di vivere del discepolo che si fida di Gesù, gli fa lasciare tutto per lui ed identifica la sua vita con quella del pastore, così come il pastore identifica la sua con quella di coloro che conduce al pascolo (M. Hengel). Non è la relazione del discepolo con il Rabbino, che si riduce ad imitare costumi e norme, ma è l’adesione che fonde la vita con quella dell’altro.
3. Tutto ciò suppone la soppressione in radice della relazione “governante-governato”. Non si tratta più di una “relazione di potere” alla quale corrisponde una “relazione di sottomissione”. In questo è consistito il “principio di decomposizione” della Chiesa. Perché in essa l’”obbedienza” ha soppiantato la “sequela”. Noi cristiani obbediamo ai preti, ma non seguiamo Gesù.
Può esserci una manipolazione più grande del progetto originario di Gesù? Obbedire è “sottomettersi a” un altro. Seguire è “vivere con” un altro. In questo caso, come hanno fatto i discepoli di Gesù, è vivere con lui e come lui. Quale prete ha il coraggio di dire: “Vivete come me e così tutti noi seguiremo Gesù”?

(tratto da www.ildialogo.org)

  

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