LETTERA FRATERNA n. 71 - Febbraio 2015

Il mondo Ebraico
del cibo




  

I PRECETTI ALIMENTARI EBRAICI

Uno dei primi divieti imposti all’uomo riguardò il cibo. Nel paradiso terrestre Iddio proibì ad Adamo ed Eva di mangiare i frutti dell’Albero della Vita. Non è dunque un caso che gli Ebrei diano una notevole importanza all’autocontrollo alimentare.

Da tremila anni nella casa Ebraica, il tavolo è un altare, la cucina un tabernacolo. Lungi dall’essere oppressive per i credenti, le regole alimentari Ebraiche hanno favorito – rafforzando l’identità dello stesso popolo Ebraico disperso – la nascita di una cucina ricca e fantasiosa, all’interno della quale si armonizzano sia gli elementi della cultura originaria che le singole tradizioni alimentari locali.

L’Ebraismo, onorando e sacralizzando le norme che vigono in cucina, non sminuisce affatto il valore della religione, ma innalza verso il cielo un atto, il nutrimento, che è, pur nella sua apparente banalità, l’essenza stessa della vita umana.

Seicentotredici sono i precetti (mitzvòt) che l’ebreo deve osservare per adempiere al suo ruolo sacerdotale nel mondo. Molti di questi obblighi o divieti sono relativi al cibo e alla cucina.

Lo stesso numero 613 fa riferimento alla quantità di semi contenuta nel frutto – il melograno – che simboleggia per gli Ebrei l’Albero della Vita presente nell’Eden.

I mitzvòt prescrivono obblighi e interdizioni nella scelta degli ingredienti da utilizzare, nella preparazione delle pietanze e nelle modalità della loro assunzione.

L’insieme di queste norme è presente nella Torah (il Pentateuco, cioè i primi cinque libri di quello che i cristiani chiamano Antico Testamento) con lo scopo di guidare gli Ebrei verso un sistema di vita che porti la parola divina nei gesti della quotidianità.

Per questo motivo ogni alimento, per poter essere consumato, deve essere kosher (adatto, valido), ovvero preparato nel pieno rispetto delle regole alimentari Ebraiche.

L’atto stesso dell’alimentarsi non è rivolto soltanto al soddisfacimento immediato dei sensi, ma ha lo scopo di sostenere il corpo per prepararlo alla vita che è, per l’ebreo osservante, soprattutto servizio divino.

La tavola imbandita trascende dunque il suo significato materiale per rivestirsi di valori etici e trasformarsi in professione di fede.

Gli oggetti e le pietanze che vi compaiono non sono posti a caso, ma obbediscono alla logica di riti millenari: prima di accostarvisi è necessario purificarsi le mani e recitare specifiche benedizioni. L’alimentazione diventa così un momento di comunione con Dio, una forma di preghiera.

È difficile risalire alle motivazioni originarie a causa delle quali queste regole si sono affermate. La scuola funzionalista vuole le regole alimentari Ebraiche strettamente connesse alle esigenze dell’economia agricola e pastorale dell’antico Israele, dove per altro il consumo di determinati tipi di carne poteva risultare nocivo e favorire malattie ed infezioni.

All’antropologo non sfugge che la kosherut (l’essere adatto) possieda una sua ben definita finalità culturale, volta alla salvaguardia della specificità del popolo Ebraico.

In senso più moderno, i divieti alimentari giudaici possiedono una straordinaria valenza educativa in quanto portatori di un chiaro messaggio: all’uomo non è concesso di disporre di tutti i beni in maniera indiscriminata.

Il cibo kosher è classificabile in tre categorie: cibi a base di carne, cibi a base di latte e cibi parve. Questi ultimi sono alimenti che non contengono né carne né latte e il termine parve indica il loro stato “neutrale”.

Frutta e verdura allo stato naturale sono sia kosher che parve. Il pesce, purché abbia pinne e squame è kosher e parve. Tuttavia un alimento parve è considerato “di latte” se cucinato con latte o suoi derivati, o “di carne” se cucinato con carne o suoi derivati.

Le leggi fondamentali che definiscono quali animali siano kosher sono appunto illustrate nella Torah.

Per poter essere leciti, i quadrupedi devono essere ruminanti e avere lo zoccolo diviso in due. La successiva tradizione rabbinica ha poi indicato nell’assenza di incisivi superiori un elemento certo per la definizione di ruminante. Partendo da questi presupposti, risultano commestibili i cervidi, i bovini, gli ovini, i caprini e persino la giraffa.
Tuttavia i cervidi, pur essendo ammissibili, non possono più essere consumati in quanto, in base alle vigenti normative, devono essere abbattuti con colpo di pistola in campi aperti e non condotti in mattatoio per la macellazione rituale come richiesto dalle regole Ebraiche.

Tra i quadrupedi restano esclusi i camelidi (ruminanti, ma senza divisione di zoccolo), i suini (non ruminanti), il cavallo, il coniglio, la lepre.

Più difficile è determinare, tra i volatili, quali siano le specie permesse. Sia il Levitico che il Deuteronomio non forniscono precisi criteri, ma soltanto un elenco di animali proibiti: lo struzzo, il gufo, l’avvoltoio e pochi altri.

La tradizione orale ha però stabilito che il volatile kosher non deve essere “rapace” e che sono da considerarsi rapaci tutti quei volatili che, quando si appoggiano su un supporto, dividono le dita delle zampe, due anteriormente e due posteriormente, o quei volatili che prendono il cibo al volo.

Appurato che non si tratti di un rapace, è necessario che il volatile possieda un dito della zampa rivolto posteriormente, abbia il gozzo e il ventricolo avvolto da una membrana facilmente asportabile con il solo uso delle mani.

Per quanto riguarda le uova, ne è permesso il consumo quando sia kosher anche l’animale che le ha deposte. Per tradizione sono dunque permessi il pollame in generale, ma anche il piccione, il fagiano e la pernice.

Il Levitico fornisce, in maniera precisa, il criterio per riconoscere gli animali acquatici permessi: quelli con pinne e squame. Ciò esclude, ovviamente, ogni tipo di mollusco, crostaceo o mammifero acquatico, ma anche l’anguilla, il pesce spada, il pesce gatto, lo squalo e moltissimi altri.

Sono considerati kosher soltanto quei pesci che abbiano pinne e squame facilmente asportabili, motivo per il quale lo storione in alcune comunità Ebraiche non è considerato kosher, come non lo sono le sue uova, mentre in altre è considerato lecito.

Il latte e i suoi derivati, che provengano da un animale kosher, sono kosher a loro volta. Tuttavia, poiché non è possibile distinguere latte kosher da quello non kosher, i rabbini hanno stabilito che esso debba essere controllato dalla mungitura fino al confezionamento. Il latte controllato si trova attualmente in commercio con la dicitura Chalav Israel.

Una posizione centrale nelle regole della kosherut è occupata dalla separazione tra carne e latte. Ben tre volte è infatti ripetuto nella Bibbia: “non cuocerai un capretto nel latte della madre”.

La tradizione ha poi vietato qualsiasi mescolanza di carne e latte nell’ambito dello stesso pasto, ma non soltanto. Per poter consumare latticini, dopo aver mangiato carne, è richiesta un’attesa di sei ore. Sono dunque bandite le “bistecche al burro”, i cheeseburger, il caffè macchiato e i dolci a base di latte se consumati al termine di un pasto a base di carne.

Per evitare la più piccola contaminazione tra carne e latte, le regole della separazione si applicano anche a tutti gli utensili che possano essere impiegati in cucina: ciò comporta il possesso e l’uso di batterie separate di posate, piatti, utensili e lavandini.

Anche la lavastoviglie può essere utilizzata per lavare piatti e stoviglie adoperati o per la carne o per il latte, ma non per entrambi.

Il pane deve essere sempre parve: non può dunque contenere né burro, né latte, né ovviamente strutto, né essere cotto negli stessi forni dove vengono cotti pane o dolci non kosher.

Non è comunque sufficiente che l’animale appartenga a una specie permessa perché sia concesso cibarsene. Esso deve essere esente da difetti fisici e da malattie e deve essere macellato ritualmente secondo la shechitah, ossia mediante un taglio rapido alla gola praticato con un coltello affilatissimo, privo di qualsiasi imperfezione sulla lama.
La tradizione richiede espressamente che il movimento del coltello sia ininterrotto, che venga effettuato senza esercitare pressione, che il taglio incida trasversalmente la gola senza entrare nelle carni, che la trachea e l’esofago non vengano spostati in modo tale da rendere la morte dell’animale il meno dolorosa possibile.
Soltanto se tutte queste condizioni vengono soddisfatte, la carne dell’animale può essere consumata.

L’uccisione di un animale non è dunque vista come un evento consuetudinario e il rito della shechitah ha proprio lo scopo di far riflettere sulla crudezza dell’atto che si sta compiendo. Non per nulla lo shochet (il macellatore), oltre alle svariate cautele, deve recitare una benedizione prima di procedere alla macellazione: la violenza va sempre controllata mediante l’osservazione delle leggi divine.

Non tutte le parti dell’animale, una volta macellato, sono comunque commestibili.

Sono proibite infatti tutte quelle parti di grasso, il chèlev, che venivano bruciate sull’altare: il grasso che avvolge i reni, quello intorno al peritoneo, quello del grande omento e quello che contraddistingue l’area dorsale.

D’altro canto la Bibbia afferma esplicitamente che “ogni parte grassa appartiene al Signore”. E siccome il procedimento di purificazione (nikur) che comporta la rimozione di alcune vene e dei grassi vietati, è notevolmente complesso nei quarti posteriori degli animali, in molte comunità della diaspora non viene effettuato e queste parti vengono vendute al mercato non Ebraico.

I quarti posteriori dei quadrupedi contengono, tra l’altro, il nervo sciatico, che non può essere consumato dagli Ebrei, poiché è il punto in cui Giacobbe rimase ferito nel suo scontro con l’angelo.

Quella dell’astinenza dal chèlev è definita una “legge eterna” al pari del divieto di cibarsi di sangue.

Il divieto del sangue, dato da Dio già a Noè, implica lo svolgimento di tutta una serie di operazioni da intraprendere prima di consumare la carne.
Poiché il dissanguamento ottenuto con la shechitah non riesce a privare la carne dell’animale da ogni traccia di sangue, la tradizione stabilisce che è possibile farlo con la salatura o con l’arrostitura.


Nel primo caso occorre immergere la carne in acqua per almeno mezz’ora, quindi posarla su una superficie perforata (per permettere il deflusso del sangue) e ricoprirla di sale grosso. Dopo un’ora bisogna risciacquarla tre volte sotto acqua corrente: soltanto in quel momento la carne è pronta per l’uso.

Nel secondo caso occorre cuocere la carne già lavata a contatto con il fuoco, facendo attenzione ad eliminare il liquido che ne fuoriesce.
Il fegato, ad esempio, essendo imbevuto di sangue non può essere kosherizzato con la salatura ma deve essere preparato esclusivamente alla griglia a diretto contatto con la fiamma.

Il popolo Ebraico ha saputo, nonostante la diaspora, mantenere salda la propria identità grazie al rispetto della tradizione e dei precetti. Tutto ciò non significa che l’Ebraismo sia una realtà omogenea. Vi sono peculiarità e differenze tra Ebrei di origine ashkenazita, come quelli originari della Francia o dell’Europa centrale, ed Ebrei sefarditi, come quelli provenienti dalla Spagna e dal Portogallo, o tra Ebrei italiani e yemeniti, o tra Ebrei etiopici, cinesi, iracheni, nordamericani o indiani.

Dissomiglianze si riscontrano anche in ambito alimentare, fermo restando il rispetto per le regole alimentari dettate dai precetti.

È facile distinguere il gusto ashkenazita, che predilige il pesce (chi non conosce il famoso gefillte fish), i brodi di pollo, i piatti a base di verdure (soprattutto patate) e le composte di frutta, dal gusto sefardita, più mediterraneo e amante degli stufati di carne, delle verdure, dei datteri e delle mandorle.

A iniziare dal 1950 con il ritorno degli Ebrei in Israele, la cucina è riuscita ad esprimere quel senso di unitarietà che gli mancava per “contingenze” storiche. Si è creata così un’intelligente mescolanza di gusti e di alimenti che risente positivamente delle influenze della cultura araba e palestinese e del reciproco scambio tra le diverse anime della diaspora, fuse in maniera sorprendente in un sincretismo che è impossibile riscontrare altrove.

Si sono così diffusi, come piatti “nazionali”, lo shishlik (spiedino di agnello, manzo, peperoni e cipolle), molto simile al kebab arabo, l’hummus (purè di ceci con aglio, succo di limone e olio d’oliva), la tahina (salsa a base di semi di sesamo) e i falafel (polpettine di ceci), ma anche i piatti della tradizione Ebraica delle diverse comunità: il già citato gefillte fish ashkenazita (pesce ripieno che si usa mangiare per il capodanno Ebraico), i sarmali sefarditi (polpettine di carne macinata e riso ricoperte da foglie di vite, tipiche di Succoth, la festa delle capanne che cade tra settembre e ottobre), i latkes di patate ashkenaziti (frittelle per Chanukkah, la festa delle luci dei primi di dicembre), le orecchie di Aman (dolci fitti e ripieni per Purim, la festa delle sorti che cade tra febbraio e marzo), i blintzes sefarditi ( frittatine molto popolari per Shavuoth, la Pentecoste che cade tra maggio e giugno).

Gesù, ebreo di Nazareth

 Com’è noto, Gesù era ebreo. L’ultimo pasto che consumò con i suoi discepoli è registrato nel Nuovo Testamento da Marco e da Matteo, che ci informano circa il fatto che si stava celebrando la Pasqua Ebraica, la festa dei pani azzimi.

Tuttavia né l’uno né l’altro Autore riportano quali piatti vennero serviti. Entrambi i racconti concordano però sul fatto che due dei discepoli erano giunti a Gerusalemme per cercare una casa in cui Gesù potesse trascorrere piacevolmente il momento del pasto festivo.

Gesù non ha mai rinnegato il suo Ebraismo (Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento) e si è sempre mantenuto fedele alla Legge Ebraica (È più facile che passino il cielo e la terra piuttosto che cada anche un solo apice della Legge).

È dunque ragionevole pensare che la sua Ultima Cena sia proprio consistita in un seder (banchetto) di Pesach tradizionale. Pesach deriva dalla radice p-s-h che contiene in sé il concetto di “passaggio”, di “passare oltre”: il nome della festa si collega infatti al passaggio del malak hamashchit, l’angelo distruttore che durante la liberazione dalla schiavitù colpì le case degli Egizi, ma oltrepassò – proteggendole – quelle Ebraiche.

Il significato più profondo di questa festa è dunque legato al ricordo dell’intervento di Dio in favore degli Ebrei perseguitati in Egitto. E l’atto stesso del “ricordare” contraddistingue ogni momento degli otto giorni (sette in Israele) festivi.

La Torah prescrive di mangiare, la sera del 15 di Nissan (mese Ebraico che cade tra marzo e aprile), il Qorban Pesach, l’agnello immolato lo stesso pomeriggio, accompagnato da azzime (matztot) ed erbe amare (maròr) che rammentano l’amarezza del soggiorno in Egitto).

Tuttavia, dal 70 d.C. con la distruzione del Tempio ad opera delle truppe di Tito, quel sacrificio venne meno e si prese l’abitudine, rimasta tale sino ai giorni nostri, di porre sulla tavola una zampa d’agnello arrostita: un pezzo non carnoso, soltanto un ricordo del sacrificio vero e proprio.

L’uso del pane azzimo (per tutta la durata della festa è fatto divieto di mangiare e addirittura di possedere cibo lievitato) celebra invece il pane che gli Ebrei, in corsa verso la liberazione dalla schiavitù, portarono con sé senza aver avuto il tempo di farlo lievitare.

Un particolare che ci permette di riconoscere, nell’Ultima Cena di Gesù, proprio un seder pasquale, è legato al afigomàn: l’ultima matzeth. Questa, infatti, viene divisa tra i commensali dopo aver pronunciato la benedizione di fine pasto: gli stessi gesti che i Vangeli raccontano abbia compiuto Gesù, il quale: “Preso il pane, rese grazie”.

Un altro particolare è invece legato al vino. Leggiamo infatti che: “Allo stesso modo, dopo la cena, prese il calice”. Si trattava del terzo calice di vino prescritto per il seder.

Quattro sono infatti le coppe di vino che devono essere consumate nella cena di Pesach: la prima per santificare l’inizio del pasto, la seconda per celebrare la liberazione dall’Egitto, la terza come benedizione finale per chiudere il pasto e la quarta ed ultima recitando i salmi di lode (hallel).

Le ultime vicende terrene di Gesù vengono presentate dai Vangeli con toni tali da conferire a questo momento – che dovrebbe essere di festa – una crescente drammaticità. Ma è bene ricordare, che il Vangelo più antico, quello di Marco, è stato scritto tra il 70 e il 72, cioè 40 anni dopo la crocifissione. Quello di Luca attorno all’85, quello di Matteo attorno al 90 e il più recente, quello di Giovanni, attorno al 110.

La caduta di Gerusalemme aveva segnato la scomparsa dello Stato Ebraico e gli evangelisti si rivolgevano a proseliti di origine ellenistica e a cittadini romani. Appare quindi naturale che cercassero di prendere le distanze dagli Ebrei, un popolo odiato da Roma a causa della pervicace tenacia dimostrata nell’opporsi alla sovranità romana.
Rivolgere il benché minimo rimprovero ai Romani per aver perseguitato l’ebreo Gesù, averlo dichiarato colpevole per un crimen maiestatis meritevole di morte, averlo condannato e crocifisso secondo il diritto romano, avrebbe potuto far scattare misure repressive.

Eppure proprio la Legge Ebraica ci permette di scorgere le incongruenze insite nel racconto degli Evangelisti.

Secondo la stessa, infatti, era proibito celebrare processi nei giorni festivi e nelle vigilie.
Inoltre le udienze dovevano essere pubbliche e svolgersi nell’atrio del Tempio. Infine, per condannare a morte un imputato, non bastava la sua confessione, ma era necessario che vi fossero due testimoni a confermare la veridicità dell’accusa e chi aveva bevuto quattro bicchieri di vino non poteva andare in tribunale.

Secondo i Vangeli, Gesù è stato arrestato la notte in cui si svolgeva la festa di Pesach, è stato interrogato di notte in una casa privata e condannato senza testimoni d’accusa (trattandosi della notte del seder, infatti, quattro bicchieri erano senz’altro stati bevuti nel corso della cena).

La narrazione degli ultimi giorni del Nazareno va letta tenendo presente che Gesù fu arrestato dalla polizia romana, giudicato e condannato dal procuratore romano, Pilato o un altro.

Purtroppo il testo evangelico, elaborato sotto il potere di Roma, lasciò un terribile segno d’odio e l’accusa di “deicidio” perseguitò per duemila anni gli Ebrei ed è ancora dura a morire.

Resta significativo il fatto che l’istituto cristiano dell’Eucarestia sia scaturito proprio dal ricordo della ritualità del Seder Ebraico, dalla benedizione del pane e del vino tipici di ogni famiglia Ebraica di quel tempo.
L’agnello pasquale diviene l’Agnus Dei. La matza diviene il corpo spezzato di Gesù. Le erbe amare divengono il simbolo dell’amarezza della sua morte. Infine il vino diviene il sangue di Gesù, che viene versato per la remissione dei peccati.

 Da Il mondo Ebraico del cibo

  

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