LETTERA FRATERNA n. 18 - agosto 2010   

A tavola con Gesù


  

Le stradine tortuose della città vecchia di Gerusalemme, impregnate degli aromi pungenti del cumino e del cardamomo. I sentieri di pietra lungo le sponde del Mare di Galilea accompagnati dai fumi del pesce fritto in salsa speziata.
La frutta lucida e succosa che colora a festa le vie di Gerico. Gli oli aromatizzati, i vini densi, le carni lavorate secondo le rigide regole alimentari ebraiche.
E’ anche questo il fascino della Terra Santa: un’incredibile esperienza del sacro alla scoperta dei luoghi che ospitarono la presenza di Gesù, ma anche dei sapori e degli odori che popolarono la sua tavola.
Con una guida enogastronomica d’eccezione: la Bibbia.
Basta sfogliarla per imbattersi in numerosissimi riferimenti cibi e bevande. Usanza, prodotti, tradizioni dal richiamo simbolico evidente. E che ancora oggi, dopo migliaia di anni, si confondono tra le pieghe di un panorama enogastronomico di eccezionale multiculturalità.
Nell’Israele moderno, la cucina è infatti tanto variegata quanto lo sono i suoi abitanti: per lo più immigrati dall’Europa dell’est, del Commonwealth, del Nord Africa, che hanno portato una lunga storia di consuetudini alimentari ebraiche sviluppatesi nella loro area d’origine.
Ma anche arabi, la cui presenza è percepita in pietanze come le falafel, polpette di ceci vendute ad ogni angolo di strada, l’hummus, purea di ceci con pasta di semi di sesamo, e la tabbouleh, semola condita con pomodoro e prezzemolo.
Prelibatezze divenute di recente oggetto di un’aspra contesa con il vicino Libano, che ne rivendica la paternità e il marchio DOP.
Un conflitto culinario dagli enormi interessi commerciali tra due paesi ancora fondamentalmente in guerra dopo gli scontri del 2006.
E se allora il turismo in Israele subì una disastrosa flessione, oggi la ripresa sembra inarrestabile: i dati del ministero del Turismo israeliano, riferiti ai primi 6 mesi del 2008, parlano di un incremento del 41% rispetto allo stesso periodo del 2007.
Impressionante è la crescita dei visitatori italiani: + 74%. Pellegrini in gran parte. Invitati alla mensa di Gesù.
Pane d’orzo condito con olio d’oliva e pesce arrostito o essiccato: questo doveva essere il più delle volte l’alimentazione di Gesù.
Nei Vangeli non si citano ricette: nel fare riferimenti agli alimenti semplici e naturali della terra d’Israele, la tensione è concentrata sull’atto del mangiare insieme.
“Per gli ebrei di duemila anni fa – ci spiega padre Francesco Rossi de Gasperis, studioso del Pontificio Istituto Biblico di Gerusalemme – i pasti erano un atto comunitario importante: ciascuno immergeva il suo pezzo di pane nel piatto comune e spesso era il padrone di casa a porgere il ‘boccone’ all’ospite”.
Nulla meglio di un banchetto – si pensava – può rafforzare i legami della famiglia e della comunità. E alcuni banchetti, è il caso di quello della Pasqua, erano addirittura imposti dalla Legge e regolamentati fin nei minimi particolari.
Lo stesso Gesù vi partecipa sovente: da Zaccheo il pubblicano, nella casa di un fariseo, dall’amico Lazzaro e perfino, risuscitato, alla tavola dei discepoli di Emmaus.
Al pranzo nuziale di Cana, Cristo inaugura la serie dei suoi miracoli trasformando l’acqua in vino. E nessun pasto, pur modesto che fosse, cominciava e finiva senza una preghiera di benedizione e di ringraziamento. “Perché il cibo – precisa padre Rossi de Gasperis – era considerato un dono di Dio”.
Nelle sue parabole, raccontate non di rado proprio ai commensali, Gesù accenna spessissimo alle usanze legate alla tavola: dal vitello grasso ammazzato dal padre al lievito che la massaia nasconde nella farina; dal sale che perde sapore al vino nuovo che fa crepare gli otri vecchi.
E se i benpensanti dell’epoca gli davano del “mangione e beone” perché divideva i pasti con pubblicani e peccatori, è proprio nel corso di un banchetto, l’Ultima Cena, che Cristo dona all’uomo se stesso in forma di pane e di vino, istituendo l’Eucarestia.
D’orzo per i poveri, di frumento per i ricchi, il pane costituita l’alimento fondamentale della cultura semitica e andava trattato con rispetto.
“Diversi tipi di pane, lievitato e non – fa notare Phyllis Glazer in un interessante saggio dal titolo ‘Mense e cibi ai tempi della Bibbia’ – sono citati dalle Scritture: il kikar o pagnotta, la challah, una focaccia, i matzot o pani azzimi che si mangiano a Pasqua, i nikkudim, biscotti, e il rakik o cialda”. In linea generale, la pasta veniva modellata a forma di torte schiacciate e cotta sui fianchi di un forno a forma convessa o al suo interno, su carboni accesi.
Un procedimento tuttora in uso nei villaggi arabi e nella città vecchia di Gerusalemme, dove è possibile gustare ancora caldo questo antico pane schiacciato, che ricorda la tortilla messicana o il chapati indiano. E per calarsi meglio nell’atmosfera biblica, si potrebbe accompagnarlo con del buon pesce arrostito alla brace.
Pane e pesce: era questo il menu più comune tra i contemporanei di Cristo.
La maggior parte degli apostoli e dei discepoli, del resto, erano pescatori nel Mare di Galilea. Ancora oggi, nelle locande sul lungolago, è servito il caratteristico pesce San Pietro.
“Il giorno della moltiplicazione dei pani – sottolinea Henri Daniel-Rops in ‘La vita quotidiana in Palestina al tempo di Gesù’ – l’unico companatico che i discepoli trovano tra gli astanti sono ‘pochi pesciolini’, verosimilmente salati ed essiccati” per evitarne la rapida decomposizione.
Ma se proprio il pesce diventerà il simbolo principale del Cristianesimo, non tutta la fauna che abita i mari e le acque dolci di Israele poteva finire sulla tavola di un ebreo osservante come Gesù.
Anguille, crostacei, frutti di mare, molluschi: sono privi di pinne e squame e quindi contrari ai precetti sull’alimentazione contenuti nella Torà (i primi cinque libri della Bibbia), che classifica gli animali tra specie permesse e proibite.
Kashèr, ad esempio, ovvero conformi alla Legge, sono gli animali ruminanti con lo zoccolo spaccato (ovini, bovini, caprini); tarèf, al contrario, sono il maiale, il cammello, il cavallo, il coniglio, i carnivori, vitatissimi.

Le regole alimentari ebraiche

Un insieme di intricatissime prescrizioni già consolidate all’epoca di Gesù e alle quali, nei secoli, si sono aggiunte le riflessioni dei rabbini.
Si tratta di una tradizione forte legata al cibo che gioca un ruolo fondamentale, come elemento di condivisione e unità, per un popolo segnato da diaspora e persecuzioni.
Una tradizione che ancora oggi in tutto il mondo viene alimentata attraverso le famose macellerie kashèr. “L’animale – chiarisce Joseph Pino Arbib, maestro della kesherùt del rabbinato di Roma – deve essere ucciso da persone qualificate con un sistema di uccisione e macellazione che non solo non lo fa soffrire, ma che consente di eliminare più sangue possibile”.
La legge prescrive infatti di non cibarsi del sangue degli animali, simbolo della vita.
Poi ci sono altri particolari significativi come l’eliminazione del nervo sciatico, in ricordo della ferita inferta dall’Angelo a Giacobbe.
E anche l’attrezzatura deve essere kashèr. A Gerusalemme, la stragrande maggioranza dei ristoranti espone il certificato kasherùt di garanzia del rabbinato locale.
E’ sicuramente un’esperienza affascinante immergersi nelle tradizioni di questa antica cucina, apprezzata nel mondo non solo dagli ebrei e considerata da molti sinonimo di sicurezza alimentare.
Ogni anno negli Stati Uniti si consumano prodotti kashèr per oltre 150 miliardi di dollari e anche in Europa sempre più aziende hanno linee di prodotti dedicate.
Di certo, se le prescrizioni sul consumo di animali sono abbondanti, molto meno lo era la carne che effettivamente finiva sulla tavola degli ebrei di duemila anni fa. Era l’alimento di lusso, di cui solo i ricchi facevano grandi scorpacciate.
“Tra i poveri – scrive Daniel-Rops – si abbattevano gli animali in occasione delle feste di famiglia: particolarmente gradito era il ‘vitello grasso’ della parabola del figliol prodigo. Più spesso ci si accontentava di capretti e agnelli”.
Il proverbiale agnello pasquale doveva essere arrostito con una serie di melagrane infilate nella bocca e servito con le “erbe amare”, cioè lattuga selvatica o cicoria o la cosiddetta serpentaria. Un cibo che si fa monito: ricordare l’amarezza della schiavitù in Egitto.
Molto apprezzati gli stufati, in particolare di montone accompagnato da legumi. Ecco un’altra pietanza rimasta nella storia come insegnamento di vita: è proprio per un piatto di lenticchie - ci racconta la Bibbia – che Esaù si giocò la primogenitura.
Simboli, ma anche curiosità: i Vangeli raccontano che nella solitudine del deserto Giovanni Battista si nutriva “di locuste e di miele selvatico”.
Con l’olio, condimento simbolico per definizione nella terra che ha insegnato al mondo che l’ulivo è simbolo di pace, gli abbinamenti erano tantissimi: capperi, cumino, senape, ruta, zafferano, coriandolo, aneto. Ancora oggi il visitatore di Israele porta a casa l’immagine di queste spezie dai colori vivacissimi. Ma c’è un abbinamento che non avremmo mai visto sulla tavola di Gesù: carne e latte.
“Non cuocere il capretto nel latte di sua madre”, vieta infatti la Torà.
Nella “terra dove scorre latte e miele”, come gli ebrei nomadi dei tempi antichi amavano descrivere Israele, il latte di mucca era meno apprezzato di quello di pecora e di capra, dal quale si ricavavano burro, formaggio e leben, un prodotto simile allo yogurt tuttora centrale nell’alimentazione degli israeliani.
Superbo doveva essere l’abbinamento con il miele, unico dolcificante all’epoca della Bibbia.
Non era d’api, ma piuttosto uno sciroppo dolce ricavato da fichi, datteri, carrube o uva, di cui gli ebrei erano ghiottissimi, tanto da aggiungerlo anche al vino.
E finalmente arriviamo al vino, bevanda sacra per eccellenza, simbolo di benessere, abbondanza, sicurezza. Secondo la tradizione, era stato proprio Dio a rivelare a Noè come fabbricarlo. E come la carne, doveva essere kashèr: solo mani ebree potevano lavorare alla sua preparazione.
“In generale – spiega Daniel-Rops – era un vino molto denso, molto nero, ricco di alcol e di tannino, non lo si serviva puro, ma annacquato”.
Anche qui un precetto: la Legge invita alla moderazione. Ed è tradizione tra gli ebrei berne quattro coppe a Pasqua, due ai matrimoni e una per festeggiare la circoncisione.
Una tradizione di condivisione legata alla tavola attraverso cui venivano, e vengono ancora, rafforzati quei legami della famiglia e della comunità che hanno fatto la storia del popolo di Israele.


Roberta Moretti
Buona Cucina - Anno XIV - n.1